Riccardo Bisti per www.federtennis.it
Kei Nishikori“Di solito non funziona così, ma Kei Nishikori rappresenta un’eccezione: i suoi guadagni non sono legati alle prestazioni sportive. Se scende in classifica, non è prevista alcuna diminuzione”. Parola di Oliver van Lindonk, manager del giapponese che ha aperto un nuovo libro nell’enciclopedia del tennis nipponico. Erano stati forti negli anni 20 e 30, quando il dolce Jiro Sato esprimeva un tennis da top-5. Quando si suicidò nella notte del 5 aprile 1934, insieme a lui morirono i sogni di gloria. E mentre il Giappone cresceva fino a diventare una delle più grandi potenze economiche, il tennis non trovava personaggi. Un po’ perchè si giocano circuiti interni molto danarosi (perfetti per dissuadere l’attività internazionale), un po’ perchè mancava il personaggio. Il campione. Il fenomeno. Per questo, Shuzo Matsuoka ha avuto una popolarità sproporzionata rispetto ai risultati. Ha vinto un torneo ATP (Seul 1992), vanta alcune vittorie di prestigio (Sampras, Edberg, Ivanisevic), ha colto un quarto di finale a Wimbledon…ed è stato numero 46 ATP. Quando ha appeso la racchetta al chiodo, nell’aprile 1998, i giapponesi hanno fatto come i cinesi: si sono seduti sulla riva del fiume aspettando che arrivasse qualcuno più forte di lui. In un contesto del genere, tenuto vivo dal talento di Takao Suzuki, è emerso il fenomeno di Shimane, prefettura di 750.000 abitanti nella regione di Chugoku, nell’isola di Honshu, non troppo distante da Hiroshima. Quando aveva cinque anni, in piena era Matsuoka, i genitori gli misero una racchetta in mano. Ma mamma Eri (maestra di pianoforte) e papà Kiyoshi (ingegnere) non avrebbero mai pensato di rivoluzionare lo sport del loro paese, con un tennista capace di entrare tra i top-10 e di raggiungere la semifinale allo Us Open, 96 anni dopo Ichiya Kumagae, che perse da Bill Tilden quando il torneo si chiamava ancora “Us Championships”. “Ho capito che avrei potuto diventare un tennista intorno agli 11-12 anni – racconta Nishikori – vinsi un paio di tornei in Giappone ed ebbi l’opportunità di trasferirmi negli Stati Uniti, presso l’Accademia di Nick Bollettieri. Inizialmente fu un periodo di prova di tre settimane: mi piacque e così decisi di provarci sul serio”. Il miracolo fu possibile grazie a Masaaki Morita, ex CEO del colosso Sony. Si affezionò subito a quel ragazzo, tanto da finanziargli la trasferta. I più attenti ricorderanno le pubblicità delle TV Sony nei grandi magazzini. Per mostrare le meraviglie dell’HD, veniva mostrato un allenamento di Nishikori. Se non è fiducia questa…Gli americani si accorsero di lui grazie a uno stage di prova effettuato in Giappone, e non lo mollarono più. “Anche se quando mi sono trasferito avevo qualche timore. Oltre a non parlare inglese, temevo una cultura molto diversa dalla mia. Tutto sommato, gli americani non sono meno rigorosi di noi ed è facile fare amicizia”. Queste frasi, pronunciate oggi, stridono con i ricordi di chi gli è stato accanto sin dall’inizio. Una figura chiave della sua carriera è stato Gabe Jaramillo, una specie di factotum presso l’Accademia di Nick Bollettieri. Per facilitare l’integrazione di Kei, nei primi due anni lo fecero allenare esclusivamente con persone che già conosceva. “Anche perchè non avevamo nè allenatori giapponesi nè interpreti – ricorda Jaramillo – così lo abbiamo iscritto a una scuola di inglese. All’inizio parlava poco e mandava pochissimi feedback”. Non deve essere stato semplice passare dalle montagne giapponesi a un’accademia della Florida con persone provenienti da 132 paesi. Eppure, a dispetto della timidezza, Kei aveva le idee molto chiare. “Aveva una disciplina eccezionale – continua Jaramillo – se gli dicevamo di essere in campo alle 7 del mattino, alle 6.45 era già sul campo per sistemarsi al meglio e iniziare alle 7 in punto”. Voleva giocare a tutti i costi il Roland Garros junior, e ci riuscì. Vinse il doppio in coppia con l’argentino Emiliano Massa, mentre la corsa in singolare si bloccò nei quarti. Ma ormai era chiaro che sarebbe diventato un giocatore. I primi a intuirlo furono Bollettieri e lo stesso Jaramillo. Quest’ultimo, per non lasciare nulla al caso, creò uno staff di 14 (quattordici!) persone per seguirlo a tempo pieno: allenatore, preparatore, fisioterapista, psicologo, manager, maestra di yoga, nutrizionista, addetto alla famiglia…Una mattina del 2008, Kei espresse il desiderio di giocare un torneo future perchè aveva perso nelle qualificazioni del challenger di Dallas. Invece lo spedirono a Delray Beach. Risultato? vinse il torneo, cancellando quattro matchpoint a Sam Querrey in semifinale e domando il n. 12 James Blake in finale. Aveva 18 anni, 1 mese e 19 giorni. Prima di lui, l’ultimo a vincere un titolo ATP in età così giovane era stato Lleyton Hewitt.
Era nata una stella. In Giappone sono letteralmente impazziti. Mentre i contratti arrivavano a pioggia, tanto da fargli guadagnare quanto avrebbe intascato vincendo un paio di Slam, ha fatto i conti con la popolarità quando ha giocato per la prima volta a Tokyo. Quando atterrò all’aeroporto, trovò ad attenderlo 60 giornalisti e sei troupe televisive. Ma era soltanto l’inizio, tanto che oggi hanno adottato uno stratagemma: ogni volta che torna in Giappone prenotano 2-3 voli, in modo da confondere le acque. Ma nel 2008 erano ancora impreparati. Le sue conferenze stampa erano talmente affollate che tolsero le sedie e vi si poteva partecipare soltanto in piedi. L’addetto stampa dell’ATP ricevette ben 24 richieste di interviste one-to-one. Per intenderci, il vincitore di Wimbledon ne deve fare una quindicina. La Nishikori-Mania esplose ad ogni livello: ciascuno dei sei network principali sguinzagliò un giornalista esclusivamente per lui. All’epoca, l’head-coach era Glenn Weiner. Lavorava ancora con lui quando nacque il celeberrimo “Project-45”. Nell’Era Open, il miglior ranking raggiunto da un tennista giapponese era la 46esima posizione di Shuzo Matsuoka. Ogni contratto firmato da Nishikori ne teneva conto. “Di solito, i contratti prevedono un bonus se entri tra i primi 10 – dice van Lindonk – mentre nel suo caso era sempre menzionata la 45esima posizione”. Il progetto si è arenato nel 2009 a causa di un fastidioso infortunio al gomito destro. Kei non si era mai sottoposto a interventi chirurgici. “Allora ho temporeggiato per 4-5 mesi prima di decidere. Il rientro è stato difficile, non ero abituato a ripetere centinaia di volte gli stessi esercizi in fase di riabilitazione”. Il rientro avvenne nel 2010, nei piccoli challenger americani. Ovviamente i connazionali non lo mollarono. Le piccole sale stampa dei tornei di Savannah, Sarasota, Binghampton e Knoxville pullulavano di giornalisti giapponesi, pronti a relazionare su ogni partita, ogni game, ogni respiro. Bisogna essere onesti: Kei ha fatto un capolavoro. Gestire una pressione del genere a 20 anni è un piccolo miracolo. Piano piano, sono arrivati i successi. Nel 2011 ha raggiunto la prima semifinale in un Masters 1000 (a Shanghai), mentre nel 2012 ha colto i quarti all’Australian Open. Quando ha superato il record di Matsuoka, i due si sono incontrati. “Mi ha detto che non doveva essere il mio obiettivo. Dovevo continuare a spingere per salire sempre più alto”. Kei lo ha preso in parola: nel 2011 è stato tra i pochi a battere Novak Djokovic (a Basilea), mentre l’anno dopo è arrivato l’atteso successo a Tokyo. Resistendo alla pressione, schiantò Milos Raonic in finale. Era un indennizzo per il suo paese. L’11 marzo 2011, il Giappone fu sconvolto da un terrificante terremoto che fece registrare oltre 30.000 vittime. Lui stava per esordire a Indian Wells. Si riunì col suo team, gli lasciarono libera scelta se giocare o meno. “Alla fine scesi in campo, era l’unico modo per dimostrare la mia vicinanza. Ma in quei giorni mi domandai se davvero valeva la pena giocare a tennis”. Poche settimane dopo, a Miami, organizzarono una partita di calcio benefica. E Kei spazzò via ogni dubbio, anche perchè al suo fianco c’era un nuovo coach, l’argentino Dante Bottini. “La cosa migliore che gli potesse capitare – ha detto Nick Bollettieri, che ancora oggi dispensa qualche consiglio – il suo grande pregio è il non parlare troppo. Kei non ama un dialogo troppo fitto”. E così, il 7 ottobre 2012, è arrivato il successo più importante della sua carriera. Potrà anche vincere questo Us Open, ma Tokyo resterà un gradino sopra, tanto che Adidas gli ha preparato un paio di scarpe raffiguranti la data dello storico successo. Dopo Tokyo sono arrivati altri tre successi: Memphis nel 2013 e la doppietta targata 2014: il bis in Tennessee e l’importante successo a Barcellona, dove ha capito di poter giocare bene anche sulla terra battuta. In fondo, su questa superficie aveva già battuto Roger Federer (Madrid 2013). Ma batterlo di nuovo a Miami, in una night-session da brividi, gli ha dato la convinzione di poter abbattere l’ennesimo scoglio: l’ingresso tra i top-10. Ce l’ha fatta a maggio, quando stava per vincere il Masters 1000 di Madrid. Nella finale contro Nadal, la schiena ha fatto crack sul più bello. In effetti, l’unico timore sono gli infortuni. A Bradenton hanno lavorato duro per rinforzarlo, soprattutto nella parte superiore del corpo. Tuttavia qualche problemino c’è ancora. “Il circuito è molto dispendioso, ma gli infortuni non dipendono dagli allenamenti. Semplicemente, non c’è tempo per allenarsi e riposarsi. E quando giochi contro i migliori il corpo richiede più energie. Tuttavia, sono convinto che l’esperienza mi aiuterà”.
A proposito di esperienza, da quest’anno il team Nishikori si è arricchito di un nuovo nome. A una decina d’anni dal ritiro, Michael Chang è tornato in pista. La decisione di assumerlo è stata di Kei e di Oliver van Lindonk. “Me l’hanno comunicato lo scorso autunno, prima dei tornei asiatici – spiega Bottini – pensavano che fosse un innesto utile per aiutarlo mentalmente, soprattutto nei grandi tornei”. Chi pensava a una convivenza difficile è rimasto deluso, anche perchè Chang si è inserito con grande umiltà in un contesto già formato. “Abbiamo parlato, volevo conoscere le sue idee e ho trovato una persona molto sensata – continua Bottini – è molto umile e abbiamo subito trovato un punto d’incontro. Lui viaggia per 15 settimane l’anno, mentre io continuo a seguire Kei ad ogni torneo. Mi piace il suo atteggiamento. Lavora duro ed ha sempre un atteggiamento positivo. Inoltre non parla mai del suo passato o del fatto che ha vinto a Parigi”. Il binomio funziona: Nishikori è più deciso quando deve prendere una decisione, che sia il tempo da dedicare alla palestra o una scelta tattica su una palla break. Anni fa, Bottini gli parlava e lui spesso non rispondeva, lasciando il dubbio se avesse capito o meno. Adesso c’è più dialogo, ma la comunicazione non sarà mai esagerata. “Anzi: quando io e Chang non siamo d’accordo su qualcosa, ne parliamo prima tra noi in modo da far arrivare a Kei un solo concetto per non creare disordini. Una buona comunicazione è fondamentale”. Nel frattempo, l’interesse dei media non accenna a placarsi. Terminata la partnership con Sony, oggi gli sponsor principali sono Uniqlo, Adidas, Wilson, Tag Heuer (come la Sharapova!) più EA Sports. “Quando rimetto piede in Giappone, la situazione si fa un po’ pazza. A volte mi tocca travestirmi quando vado a fare shopping”. L’ultima volta è stato in aprile, in occasione del match di Coppa Davis contro la Repubblica Ceca. Non vi ha potuto prendere parte a causa dell’infortuno agli adduttori patito a Miami, ma si è ugualmente recato all’Ariake Coliseum per sostenere i compagni. L’amore per il suo paese è stato più forte del fastidio di 13 ore di volo. Senza di lui, il Giappone è tornato nei ranghi e non ha potuto onorare con una vittoria l’80esimo anniversario della morte di Jiro Sato. Ma ci sarà tempo per rifarsi, anche perchè Kei ha regalato al tennis una popolarità senza precedenti. Ci sono sempre più praticanti e il Centro Tecnico Nazionale, inaugurato qualche anno fa, funziona piuttosto bene. Sono emersi giocatori interessanti e la tendenza è positiva. Ha creato così tanto entusiasmo da convincere il 36enne Katsushi Fukuda a riprovarci dopo anni di inattività. Ma l’unica star resta lui “Giocare contro di lui è molto faticoso: corre come un pazzo e ogni palla ti torna indietro” ha detto Jo Wilfried Tsonga dopo essersi liquefatto a un vecchio Australian Open. La Scuola Bollettieri ha creato un tennista solido: oltre alle gambe e alla testa, possiede due colpi da fondocampo precisi e potenti. “Ciò che riesce a fare con le mani è incredibile” chiosa Bollettieri. Quando è in palla, dà l’impressione di poter centrare una monetina da 20 metri, anche se i giornalisti giapponesi lo seguono “anche in bagno” come ha chiosato Bottini. La storia del tennis giapponese è fatta di drammi. Oltre Jiro Sato, subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, si uccise anche Ryosuki Nunoi, pure lui quartofinalista in Australia. Nishikori non conosceva queste storie: mentre cresceva a Bradenton, tra un allenamento e l’altro, preferiva chattare con gli amici oppure guardare i cartoni animati giapponesi. A stento rivolgeva la parola a Zachary Gilbert, il figlio di Brad, che per qualche periodo è stato il suo compagno di stanza. Oggi le cose sono cambiate. Kei ha preso coscienza del suo valore e della portata storica dei suoi successi. Grazie a lui, il tennis giapponese potrà cancellare il dramma e vivere la gloria. Il progetto è appena iniziato. (1849)