Nadal-Medvedev è stata la partita più bella dell’anno. Per due ragioni. La prima, di natura piuttosto irrazionale ma altrettanto fondata, è che l’altra candidata al titolo, non si è mai giocata. Non esiste, non risulta. Non c’è mai stata la finale di Wimbledon 2019, non ci sono mai stati quei due match point che se realizzati avrebbero consacrato Lui come più grande di tutti i tempi, non c’è stato quell’epilogo così crudele per Il più amato di tutti. La stragrande maggioranza del mondo federeriano ragiona così, o almeno finge di farlo, perché non si è ancora ripresa dal trauma. Neppure lui, se per questo. Federer è arrivato a New York ancora scarico e con poche gambe. Nonostante un tabellone da sogno non ha mai dato a chi guarda le partite per intero — gli highlights delle partite di tennis e di qualunque altro sport dovrebbero essere evitati come la peste — la sensazione di poter arrivare fino in fondo.
La seconda ragione sta nella qualità del gioco che si è vista ieri nella finale degli Us Open, testimoniata anche dai numeri e dal saldo positivo tra colpi vincenti ed errori gratuiti dei due giocatori. Nadal: 62-46. Medvedev: 75-57. Qualità eccelsa. Aggiungere anche il fatto che si è giocato a tutto campo e non solo in senso figurato, perché stato il match del 2019 dove sono stati percorsi più chilometri, ma soprattutto perché quasi un terzo dei punti fatti da ognuno dei due sono stati ottenuti a rete. Nadal ne ha vinti 51 su 66 (su un totale di 167), Medvedev 50/74 (164), con buona pace di chi sostiene che la volée sia ormai un repertorio d’epoca. Non è più la soluzione primaria, molto spesso si viene avanti per liberarsi da scambi micidiali o per spezzare il ritmo dell’avversario, ma la volée è ancora viva e lotta insieme a noi.
Non è stato un match epico, perché quell’aggettivo dovrebbe essere riservato alle partite che fanno da spartiacque. Come lo sarebbe stato, nel caso avesse vinto Federer, quella recente partita sull’erba. Questa, invece, è stata semplicemente una partita bellissima, di spaventosa intensità, che non ci consegna nessun cambio di stagione, e nessuna consacrazione. Rafa è sempre Rafa, il più grande combattente della storia dello sport. All’inizio del quinto set, 1-1 e 0-40 sul suo servizio, sembrava finito. Ma è Nadal. Anche questa volta, senza che il suo avversario gli abbia regalato nulla. All’improvviso, come quando il pistolero ormai disarmato tira fuori dallo stivale un’ultima arma nascosta, si è inventato un back di rovescio, più un tagliato che slice, sul dritto del russo, il suo colpo meno forte ma che fino a quel momento aveva funzionato alla grande. Lo ha martellato con quei fendenti affettati, rinunciando addirittura al dritto mancino anomalo, e stiamo parlando dell’arma di distruzione di massa più potente mai apparsa su un campo da tennis, provando a vincere di fioretto anziché di spada. Per dissanguamento. Ci è riuscito, ancora una volta. In fondo lo sapevamo. Rafa Nadal trova sempre un modo per vincere. (Qui trovate il video delle sue lacrime dopo la vittoria)
Ma a rendere bellissima questa sfida è stato il suo avversario. Daniil Medvedev è davvero un giocatore indecifrabile, non solo per l’espressione del viso sempre uguale e in apparenza imperturbabile. Nessuno, tra avversari e commentatori, ci capisce niente, dal suo gioco. Ed è una cosa bellissima. Il 23enne russo non gioca mai come ci si aspetta. Viene avanti quando la logica imporrebbe restasse indietro, ogni tanto serve delle seconde più forte delle prime palle di servizio, soprattutto, nello scambio, entra ed esce dalle diagonali (dritto su dritto e rovescio su rovescio) come e quando gli pare, cambiando direzione quasi sempre per primo. Non c’è una logica apparente. Anzi c’è, e la conosce solo lui. Un gatto strano. L’accostamento animale non è utilizzato a caso. C’è qualcosa nel suo gioco, il dritto colpito sotto le ginocchia, l’apparente indolenza, questa capacità di leggere in anticipo le mosse dell’avversario, che ricorda molto l’amatissimo Miloslav «Gattone» Mecir, il giocatore più divertente della seconda metà degli anni Ottanta-inizio anni Novanta, che vinse poco (comunque due finali Slam e altrettante semifinali) ma rimase fino alla fine un enigma per chiunque.
Ieri notte, dopo la finale, abbiamo sentito i commentatori americani di Espn, entrambi ex grandi coach, affermare che per compiere l’ultimo passo Medvedev deve «mettere ordine» nel suo gioco. È la tesi di ogni allenatore, che finisce per produrre giocatori forti ma omologati, uno simile all’altro. Speriamo invece che il diavolo russo non metta mai ordine, e rimanga così. Finora è stato l’unico della cosiddetta Next Gen capace di mettere in difficoltà i tre grandi, l’unico che sembra mostrare quella capacità di sacrificarsi e di soffrire che è il tratto comune di Rafa-Roger-Nole ma risulta sconosciuta ai giovani e molto presunti astri nascenti.
Ecco, siamo arrivati al dunque. Medvedev ci è piaciuto, ci ha fatto divertire, ma non sembra di passaggio. Se rimane ai livelli di questa estate, bisognerà aggiungere un posto a tavola. Grazie a lui, lo Us Open è servito a ricordarci che esiste anche un futuro, non solo questo interminabile presente che si spera resti tale ancora a lungo. Lo sappiamo, non sarà più la stessa cosa, senza quei tre. Soprattutto senza uno di quei tre, Roger Federer. E il momento prima o poi arriverà. Ma con il suo protagonista meno celebrato, la partita di ieri notte ci ricorda, se non altro, che ci sarà comunque vita. Anche dopo.
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