In un periodo in cui la parola “cattiveria” viene utilizzata in modo eccessivo e spesso fuori luogo per definire il desiderio e la capacità di essere competitivi in senso sportivo, la distorsione dell’italiano non è solo una questione di forma ma alimenta una questione di sostanza non trascurabile. La competizione, seguendo il suggerimento approssimativo di un italiano alquanto limitato, diviene esclusiva competenza (il gioco di parole è voluto) della volontà e, peggio, di una non ben specificata forma di aggressività. La cattiveria, appunto, non la determinazione e neppure la volontà intesa nel senso di organizzazione progettuale. Non stupiamoci se poi qualcuno fraintende arrivando a sublimare la propria cattiveria agonistica con morsi o entrate nelle vertebre, che risultano controproducenti per tutti. Da queste barbarie agonistiche la finale di Wimbledon 2014 si estranea e fornisce chiare indicazioni di quella che è una forma più sana di competizione. Il vocabolo, oggi, nell’oblio della logica e dell’etimologia, viene associato solo al semplice aspetto del confronto tra due o più atleti, tra due o più squadre, tralasciando completamente le chiavi che muovono tale confronto, snaturando la forma della competizione. Infatti in ogni sport o attività umana la miglior competizione può sussistere solo se nasce dalle migliori competenze. Si compete per mezzo delle competenze. Più competenze si posseggono e più si è competitivi. La cattiveria è un’altra storia di barbarie e vecchi libri, miti e fantasie da dimenticare.
Inoltre più uno sport è tecnico e maggiori sono le competenze richieste e necessarie per eccellere e vincere. Più l’aspetto tecnico diminuisce e più cresce la funzione della semplice “cattiveria”, il suo spazio di esistenza e importanza. Il tennis è uno sport che aiuta a comprendere perché è estremamente tecnico. Roger Federer e Novak Djokovic nel corso dell’intensa finale di Wimbledon hanno dovuto utilizzare ogni loro conoscenza tecnica per raggiungere quei livelli di gioco così apprezzati. La competizione è competenza, la spiegazione è negli stessi vocaboli. Più il proprio bagaglio conoscitivo di un’attività cresce e più si è bravi, avversari difficili da sopraffare, vittoriosi e forse, per alcuni periodi addirittura imbattibili. Sono le competenze di Rafael Nadal che lo hanno reso quasi invincibile sulla terra rossa del Roland Garros, nessuno lo ha immerso fino al tallone in una vasca riempita di un’acqua che lo rende immortale.
La cattiveria lasciatela a Suarez o a qualche rompitore di vertebre. Tali qualità non sembrano strettamente necessarie per calciare correttamente un pallone.
In verità il piacere della vittoria e quello ludico del gesto sportivo ben eseguito sono strettamente collegati alle conoscenze acquisite, e non solo nello sport è così. Maggiori informazioni si fissano nella nostra mente e più consistente, vivo e inteso sarà il piacere che scaturisce dall’azione eseguita sia che si tratti di un rovescio stretto, una punizione ad aggirare la barriera o la progettazione di un’abitazione ecologica completamente autosufficiente da punto di vista energetico.
Finché avrete qualcosa da imparare ci sarà un piacere e una soddisfazione da raggiungere collegati alla conoscenza da acquisire. In un percorso eracliteo. Il divertimento che consegue alla pratica di un sport non è passivo, indotto dall’esterno, da competenze che dipendono da altri (un otto volante, o una sostanza già preparata) ma è connaturato alla propria attività e alla crescita della propria consapevolezza finalizzata a un’azione efficace. L’educazione sportiva consiste nel complesso percorso di miglioramento collegato al tasso tecnico implicito in uno sport: attività più semplici richiedono percorsi più corti, ed i percorsi più lunghi sono spesso indice di mansioni che richiedono abilità complesse. Non è un caso che la finale di Wimbledon sia stata il risultato del percorso di crescita di due atleti dell’età di ventisette e trentatré, i quali sono arrivati all’apice del loro percorso di assimilazione di competenze.
La comprensione del mondo non è estranea a queste evoluzioni intese come percorsi: cercare di evitare le soddisfazioni passive, indotte, collegate a dogmi o semplicemente associate a qualcosa che non richiede un percorso personale di crescita di sapere significa evitare che la propria coscienza si addormenti o che venga volutamente assopita da chi ne potrebbe trarre vantaggi per avere davanti sé persone poco competitive perché rese poco competenti. (1413)