Gianni Clerici per “la Repubblica”
«Se volete venire domani, a dare un’occhiata a mio figlio, gioca gli juniores, al Moody Coliseum». Chi si rivolgeva, quasi umilmente, a Tommasi e a me, era appena stato nostro avversario al Grande Slam dei giornalisti e simili, un’istituzione che Rino aveva creato, per rendere meno immobili le nostre giornate, durante i tornei.
Il gentleman che avevamo appena incontrato e battuto, assieme a un coach indegno di tale qualifica, altri non era che il papà di un tennista junior, l’avvocato John Patrick McEnroe sr. Come si fa in Usa ci aveva immancabilmente consegnato il suo biglietto da visita, e da informazione presto assunta, ci era stato garantito che fosse uno dei migliori avvocati di New York.
Andammo quindi allo stadio un po’ prima del solito, per renderci conto, un quarto d’ora dopo, che stavamo vedendo un ragazzo dal grande futuro. John jr. stava sì perdendo contro un avversario di un anno più grande, l’ecuadoriano Ricardo Ycaza, ma il giorno in cui il suo inimitabile servizio – qualcosa di insolito anche per noi – il diritto, le volée anticipatissime, non fossero più usciti di un palmo dalle righe, sarebbe diventato chissà chi.
«Se Lamar Hunt – il padrone del torneo – trova modo di fargli allungare il campo, diventa campione del mondo» ridacchiò Tommasi. Ero del suo parere, e feci il numero telefonico di Sergio Tacchini, il mio amico magliaro, per dirgli che avevo visto uno che meritava un contratto.
Tacchini mi rispose che gli aveva appena telefonato entusiasta anche Sergio Palmieri, il figlio del grande Giovannino, che allora lavorava per lui, e gli aveva esternato il suo stupore ammirato. Fu da quel giorno, che molte ore della mia vita sarebbero trascorse ad ammirare, o a indignarmi, per gli spettacoli offerti dal figlio dell’avvocato, che portava il suo nome.
Prima che John jr. si avviasse su un Caravelle, a partecipare al suo primo Roland Garros (1977), papà ebbe ancora tempo di pregarmi «keep en eye on my boy» e cioè «tieni d’occhio il mio ragazzo».
Lo feci, e accadde che, al Roland Garros, Mac, come avevamo preso a chiamarlo, insieme a una bella ragazza americana cresciuta a Milano, Mary Carillo, uscisse vincitore da le Court Central nel doppio misto, segnalandosi anche in singolo, sino al 2° turno.
Simile affermazione tuttavia non lo fu quanto la successiva, a Wimbledon, dove pochi lo conoscevano. Partito dalla giungla delle qualificazioni, non solo non ci rimase impantanato, ma superò l’esame di ammissione tra i grandi, vincendo 8 partite di fila, tre di “quali” e 5 di tabellone, fino a battere l’australiano Dent che l’aveva appena eliminato dal Roland Garros.
Da lì, quel giovanotto che ancora era matricola dell’università, ancora dilettante, iniziò a divenire un tennista famoso, e non solo per il suo talento. Pareva che un curioso complesso lo spingesse all’aggressività, contro gli avversari, ma soprattutto nei confronti di arbitri e giudici di linea, che si permettevano spesso di avere giudizi diversi dai suoi.
Gli episodi di intolleranza divennero quasi quotidiani, e mi accadde una volta, al torneo di Bologna, di poggiargli una mano sulla guancia, mentre voleva assolutamente prendere posto nella tribuna autorità, peraltro vuota. «È una carezza, non uno schiaffo» gli dissi, ma quando domandai a sua mamma Kay perché non gli avesse tagliato la lingua, alla nascita, la poverina rispose: «Dovevi vedere le facce che faceva da piccolo».
Ma è forse di maggior interesse citarne i successi, grazie a quell’incredibile servizio mancino, il corpo parallelo alla riga di base, e ai tocchi che qualcuno definì da prestigiatore, qualche altro da scultore.
Mentre per il n. 1, nel 1977, si stavano battendo Borg, Connors e Vilas, capace di vincere Roland Garros e Us Open e di prevalere in una collana di 46 incontri consecutivi, l’anno dopo Mac riuscì a vincere 4 tornei, il Masters e a contribuire alla vittoria in Davis contro la Gran Bretagna, perdendo soltanto 10 games nelle sue 2 partite, contro Mottram e Lloyd, il marito della Evert.
L’anno seguente quel ragazzo ventenne riuscì a essere il più giovane vincitore dello Us Open dopo Pancho Gonzales (1948) e prima di Sampras (a 19 anni e 28 giorni nel 1990), e ci ridicolizzò nella finale di Davis a San Francisco.
Ma era solo l’inizio. L’anno seguente, il 1980, fu quello del famosissimo tie-break vinto a Wimbledon contro Borg, e probabilmente, a essere uno psichiatra professionista, l’inizio della malattia che condusse lo svedese al ritiro, al divorzio, alla cocaina.
Il complesso Mac si consolidò in Borg con le due sconfitte, in 4 sets, a Wimbledon e allo Us Open 1981. Tuttavia, pur insidiato da Lendl e Connors, Mac terminò le stagioni 1982 e 1983 al n. 1, e fece dell’84 il suo capolavoro.
Abituato com’ero nei miei annuali reportages di sci a segnarmi i tempi, faticai a credere come gli vidi commettere il primo dei suoi unforced errors, errori gratuiti, dopo 62 minuti della finale di Wimbledon, che terminò lasciando la vergogna di 4 games a Connors.
A questo punto, stanco di elencare risultati che sono spesso il primo a dimenticare o fraintendere, mi pare giusto dare un’occhiata alla biografia di Mac, che, come sempre accade a chi non è uso alla penna, o al computer, è stata tracciata con l’aiuto di un partner quasi onesto, e non raggiunge quindi le vette letterarie di “Open”, la fiction biografica su Agassi.
“Serious” suggerisce alcune verità su Mac. Nel primo capitolo si anticipano storie personali, insieme al crollo delle Torri Gemelle, al quale assistetti anch’io, mentre Mac conduce a scuola i sei bambini avuti o ereditati dalle due mogli, dall’attrice Tatum O’Neal e dalla seconda sposa Patty Smyth.
Il complesso di superiorità di John è mescolato – come quasi sempre gli avviene – con il comportamento amoroso, a favore dei ragazzi, ma in una simile castastrofe, egli trova modo di parlare di se stesso. «Non mi sento più invulnerabile», è la conclusione.
Di qualche interesse, per meglio capirlo, sono gli scontri con gli arbitri, ai quali spesso assistetti, come nel primo, uno dei più noti, in cui soprannominò l’arbitro di sedia Ted James, «the pits of the word», «feccia del mondo», seguito da «idiota ignorante ».
Nella prosecuzione dell’incontro che seguii, tra il divertito e l’indignato, trovò modo di pronunciare «you cannot be serious», dal quale venne poi il titolo della biografia. Ebbe, per questa e altre aggressioni verbali, vicinissime alla fisicità, multe, punizioni varie, tra le quali un rifiuto al Ballo dei Vincitori, a Wimbledon, gli costò l’ambita ammissione di Socio Onorario, che tocca ai vincitori.
Ma, la volta che, in Australia, subì, in mia presenza, quattro ammonizioni consecutive, prima dall’arbitro di sedia, poi dal giudice-arbitro, per una racchetta infranta, parolacce, urla e pantomime contro lo svedese Mikael Pernfors, mi dichiarò, a cena, con calma divertita, che la sua maggior colpa era stata l’ignoranza del nuovo regolamento, che prevedeva tre ammonizioni invece di quattro, prima della squalifica. E, alla fine, si compiacque di «esser stato il primo tennista squalificato dell’Era Open in un Grand Slam».
Che aggiungere, a simili informazioni, che hanno il difetto di apparire a un lettore eccessive, a un altro incomplete, forse benevole, forse moralistiche? Dopo che, per anni, non mi aveva detto «Hello», trovò modo di abbracciarmi, su un palcoscenico, perché entrambi eravamo entrati a far parte della Hall of Fame. Lascio al lettore la scelta delle definizioni. (907)